Aran-sindacati, scontro aperto

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La prevalenza del contratto sulle norme di legge.

È questo il tema sul quale si è discusso all’Aran giovedì scorso senza giungere ad un accordo. I rappresentanti dei sindacati firmatari del contratto (Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda-Unams) e dell’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) sono rimasti fermi sulle loro posizioni e non è stato possibile trovare un punto di mediazione.

I sindacati hanno affermato che il contratto prevale sulla legge nelle materie affidate alla contrattazione collettiva. E l’Aran ha affermato il contrario.
La riunione era stata convocata per rispondere ad alcuni quesiti posti da un giudice del lavoro, in riferimento ad un giudizio che riguardava il periodo di permanenza all’estero dei docenti che vanno ad insegnare nelle scuole italiane. Materia sulla quale il contratto stabilisce una disciplina più favorevole, mentre la legge ne prevede un’altra più restrittiva. E siccome il nuovo contratto, per le materie non regolate espressamente dalle nuove disposizioni, rinvia a quelle precedenti (si veda l’articolo 10, comma 1) il giudice, avvalendosi di una norma prevista dal decreto legislativo 165/2001, ha chiesto all’Aran e ai sindacati di stipulare un accordo di interpretazione autentica. Accordo che avrebbe dovuto indicare la strada al giudice per interpretare correttamente la normativa e risolvere il contrasto tra fonti, che sussisterebbe tra le norme contrattuali e quelle contenute nella legge.
Più precisamente, tra la disciplina più favorevole contenuta negli articoli 112 del contratto del 2003 e 116 del contratto del 2007 e tra la disciplina più restrittiva prevista dall’articolo 21 del decreto legislativo 64 del 2017. Ma il negoziato si è concluso senza alcun accordo. E quindi adesso la palla ritorna al giudice del lavoro, che dovrà decidere autonomamente, senza giovarsi dell’aiuto delle parti. La procedura prevede in questi casi che il giudizio prosegua allo stato degli atti, eventualmente, fino al giudizio di legittimità davanti alla Corte di cassazione. Dopo la riforma del 2006, infatti, la Suprema corte ha anche titolo a fornire l’interpretazione autentica delle clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro interpretando direttamente la normativa utilizzata dal giudice del lavoro (si veda l’articolo 360, comma 1, numero 3). Compito, questo, che prima della riforma era riservato esclusivamente al giudice di merito (di I e II grado). Ecco le tesi emerse al tavolo negoziale.
Secondo l’amministrazione la materia della mobilità verso l’estero è ora regolata dalla legge. E siccome il decreto legislativo 165/2001 prevede che, in materia di mobilità, la contrattazione collettiva può derogare le norme di legge solo se tale deroga è compatibile con le disposizioni di legge, eventuali deroghe non sarebbero legittime se in contrasto con i vincoli indicati dal legislatore. I sindacati, invece, hanno argomentato 2 tesi contrarie. La prima è che, essendo materia contrattuale, la regolazione della mobilità spetta al tavolo negoziale. Ed eventuali deroghe prevalgono sulla disciplina legale. La seconda tesi, sempre argomentata dai sindacati, è che tutto ciò che è stato regolato dalla contrattazione collettiva, prima dell’avvento della legge 15/2009, continua a prevalere rispetto alle disposizioni di legge che prevedono prescrizioni di segno contrario. Tale ultima tesi si fonda sul fatto che l’articolo 1, comma 10, del nuovo contratto altro non sarebbe se non una disposizione di rinvio basata sulla cosiddetta ultrattività dei contratti collettivi. E cioè su un principio consolidato nella prassi e confortato dalla giurisprudenza (si veda la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n. 5908 del 14 aprile 2003, presidente Senese, relatore Guglielmucci).
Principio secondo il quale, se la contrattazione collettiva non interviene con nuove disposizioni riguardanti determinate materie, continuano ad applicarsi quelle contenute nel contratto di lavoro non innovato. Nel caso della mobilità professionale, dunque, continuerebbero ad applicarsi le norme contenute nei contratti del 2003 e del 2007. Norme che, sebbene in contrasto con quelle previste dalle nuove disposizioni di legge a riguardo, sarebbero ancora vigenti. E siccome i contratti del 2003 e del 2007 furono stipulati in un’epoca precedente all’entrata in vigore della legge 15/2009, rientrerebbero nella sfera di applicazione del comma 2, dell’articolo 1, della legge 15/2009. Comma che fa salve le deroghe intervenute prima del 2009.
Quest’ultima interpretazione si collega, peraltro, al principio del tempus regit actum. Principio secondo il quale al caso in esame va applicata la legge in vigore all’epoca in cui il caso si è verificato. La questione è molto delicata perché il rinvio ai contratti precedenti, per quanto riguarda le materie non regolate espressamente dal nuovo contratto, è stato inserito in tutti i contratti collettivi dei vari comparti del pubblico impiego. E se dovesse prevalere la tesi dell’Aran, potrebbe innescarsi un forte contenzioso.

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